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domenica 30 ottobre 2016

La mia frutta Martorana!!



Buongiorno!! 
Oggi vi propongo un classico della cultura siciliana: la frutta Martorana.
Il nome e anche l'aspetto è proprio ingannevole perchè questa non è frutta ma è un dolce che si usa fare in quasi tutte le case siciliane, soprattutto palermitane, per commemorare i morti.
E' un dolce a base di mandorle, la stessa ricetta che si usa per le pecorelle di Pascqua, ma viene fatto nella forma di frutta o ortaggi, colorato ad arte, in modo da far sembrare vera e i siciliani sono davvero degli artisti, in questo!!
Questo dolcetto veniva preparato, di nascosto,  la vigilia e poi "i morti" lo facevano trovare ai bambini, assieme ad altri dolcetti, come "i pupi ri zucchero" e i ciuri ri meli o pupi ri mieli, sotto il letto, ne avevo già parlato in questo post.
Devo dire che io non ho mai avuto, da bambina, la fortuna che qualche morto passasse da casa mia a portarmi qualcosa, manco una nonna, o uno zio.....niente!!! Oggi penso che magari non si ricordassero la strada!!! :-)
Allora, per compensare ciò, oggi, faccio di tutto perchè qualcuno passi dalle nostre parti a lasciar qualcosa alle mie bimbe....prima era zio Michele e zia Pina, poi si è aggiunto Zio Fifo :-/, da due anni è la nonnina :-(.  Però è una gioia la mattina vederle felici!! :-)
Ed ecco la mia frutta martorana, anzi la nostra, fatta da me e dalle mie bimbe, con il prezioso aiuto di mia nipote Ornella che è una maga :-)




queste mie reinterpretazioni :-) :-)









fantastiche!!!! Ma come sono brave le mie principesse!! :-)




P.S. per capire bene questa tradizione mi piace farvi leggere questa

Fino al 1943, nella nottata che passava tra il primo e il due di novembre, ogni casa siciliana dove c’era un picciliddro si popolava di morti a lui familiari. Non fantasmi col linzòlo bianco e con lo scrùscio di catene, si badi bene, non quelli che fanno spavento, ma tali e quali si vedevano nelle fotografie esposte in salotto, consunti, il mezzo sorriso d’occasione stampato sulla faccia, il vestito buono stirato a regola d’arte, non facevano nessuna differenza coi vivi. Noi nicareddri, prima di andarci a coricare, mettevamo sotto il letto un cesto di vimini (la grandezza variava a seconda dei soldi che c’erano in famiglia) che nottetempo i cari morti avrebbero riempito di dolci e di regali che avremmo trovato il 2 mattina, al risveglio.
Eccitati, sudatizzi, faticavamo a pigliare sonno: volevamo vederli, i nostri morti, mentre con passo leggero venivano al letto, ci facevano una carezza, si calavano a pigliare il cesto. Dopo un sonno agitato ci svegliavamo all’alba per andare alla cerca. Perché i morti avevano voglia di giocare con noi, di darci spasso, e perciò il cesto non lo rimettevano dove l’avevano trovato, ma andavano a nasconderlo accuratamente, bisognava cercarlo casa casa. Mai più riproverò il batticuore della trovatura quando sopra un armadio o darrè una porta scoprivo il cesto stracolmo. I giocattoli erano trenini di latta, automobiline di legno, bambole di pezza, cubi di legno che formavano paesaggi. Avevo 8 anni quando nonno Giuseppe, lungamente supplicato nelle mie preghiere, mi portò dall’aldilà il mitico Meccano e per la felicità mi scoppiò qualche linea di febbre.


I dolci erano quelli rituali, detti “dei morti”: marzapane modellato e dipinto da sembrare frutta, “rami di meli” fatti di farina e miele, “mustazzola” di vino cotto e altre delizie come viscotti regina, tetù, carcagnette. Non mancava mai il “pupo di zucchero” che in genere raffigurava un bersagliere e con la tromba in bocca o una coloratissima ballerina in un passo di danza. A un certo momento della matinata, pettinati e col vestito in ordine, andavamo con la famiglia al camposanto a salutare e a ringraziare i morti. Per noi picciliddri era una festa, sciamavamo lungo i viottoli per incontrarci con gli amici, i compagni di scuola: «Che ti portarono quest’anno i morti?». Domanda che non facemmo a Tatuzzo Prestìa, che aveva la nostra età precisa, quel 2 novembre quando lo vedemmo ritto e composto davanti alla tomba di suo padre, scomparso l’anno prima, mentre reggeva il manubrio di uno sparluccicante triciclo.
Insomma il 2 di novembre ricambiavamo la visita che i morti ci avevano fatto il giorno avanti: non era un rito, ma un’affettuosa consuetudine.



Poi, nel 1943, con i soldati americani arrivò macari l’albero di Natale e lentamente, anno appresso anno, i morti persero la strada che li portava nelle case dove li aspettavano, felici e svegli fino allo spàsimo, i figli o i figli dei figli. Peccato. Avevamo perduto la possibilità di toccare con mano, materialmente, quel filo che lega la nostra storia personale a quella di chi ci aveva preceduto e “stampato”, come in questi ultimi anni ci hanno spiegato gli scienziati. Mentre oggi quel filo lo si può indovinare solo attraverso un microscopio fantascientifico. E così diventiamo più poveri: Montaigne ha scritto che la meditazione sulla morte è meditazione sulla libertà, perché chi ha appreso a morire ha disimparato a servire.
(da Racconti quotidiani di Andrea Camilleri)


4 commenti:

  1. La frutta martorana l'ho vista tantissime volte pur non essendo tipica della zona in cui risiedo tuttavia ho avuto modo di vederla visitando in lungo e in largo la Sicilia fin da quando ero piccola (come ti avevo raccontato essendo mio padre di questa regione le vacanze estive le trascorrevo qui per un mese intero:).Sempre vista quindi e sempre considerata un'opera d'arte,impossibile da replicare a casa...sono rimasta incantata e a bocca aperta dalla bellezza e dalla perfezione della tua frutta martorana,sia nelle forme tradizionali che nelle tue interpretazioni originali!!Bravissima come sempre ti faccio i miei migliori e più sinceri complimenti:)).
    Un bacione:))
    Rosy

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  2. Complimenti per il blog! Davvero fatto bene:-)
    Saluti dal Merano, Alice.

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  3. Che meravigliaaaaaaaaaaaaa, queste sono vere e proprie opere artistiche. Il tuo blog è splendido, complimenti

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Grazie per i vostri commenti!!